Punte di freccia

       Quattro sono le punte di freccia usate dai cacciatori yanomami: di bambù per animali grandi come  tapiro, cinghiale, cervo; trattate con  yakoana per scimmie; di legno e osso per uccelli e pesci; di ramo a forcella per uccellini. Correva voce che ci fossero nemici appostati nelle vicinanze del villaggio. Le donne non andavano al fiume senza la scorta di un uomo armato. Al calar della sera, nessuno si avventurava fuori dalla grande casa comunitaria, cui vennero rafforzate le porte di accesso.  Di giorno, occhi preoccupati scorgevano impronte sospette. Di notte, uditi attenti cercavano di interpretare il più piccolo rumore, il più lieve fruscio. Voci sommesse tentavano di spiegare le ragioni che potevano indurre un gruppo nemico a voler attaccare proprio loro, i Wakathautheri. 

       Quando l’apprensione di alcuni si trasformò in psicosi collettiva, gli uomini furono costretti a decidere di andare a scovare i nemici. Ebbero bisogno di  altro tempo prima di uscire allo scoperto affinché, attraverso l’esaltazione della comunità, si trasformassero da pacifici cacciatori in truci guerrieri. Dopo aver ascoltato gli spiriti manifestatisi attraverso gli sciamani, dopo aver controllato archi e frecce, dopo essersi dipinti di nero, dopo aver messo collane che rendono coraggiosi,  in un tardo pomeriggio i guerrieri si inoltrarono nella foresta, al villaggio restando pochi individui per difendere vecchi, donne e bambini. 

       La notizia della disgrazia non si fece attendere: Xiko, il buon Xiko, il tranquillo marito di Susi, l’affettuoso papà della piccola Mÿrana era stato ferito gravemente dalla freccia di Omá, in quei giorni in visita alla comunità locale. Il personale della missione trascorse  la notte in bianco cercando di arginare l’emorragia e alleviare  il dolore del ferito, mentre chiedeva a Dio di tenerlo in vita fino all’indomani quando, via radiofonia, avrebbe chiesto un aereo per trasportarlo in città e tentare un intervento chirurgico. Il Dio dei bianchi non ritenne  opportuno operare il miracolo, così che il pagano di ventidue anni spirò alle prime luci dell’alba.

       Mi colpì la partecipazione collettiva del gruppo locale e dei gruppi vicini al lutto dei parenti. La curiosità antropologica si mescolò al dolore personale avvertito per la morte del buon Xiko e i due elementi mi permisero di assistere a tutte le fasi del cerimoniale funebre, anche a quelle che parametri occidentali definirebbero macabre. Lo stesso evento assunse connotazioni differenti a seconda di chi lo analizzasse: “frecciato accidentalmente”, dissero i bianchi; “ammazzato da Omá”, dissero gli indios. Omá riuscì a fuggire, evitando di essere ucciso dai parenti del morto, che gli attribuivano tutta la responsabilità del fatto senza concedergli attenuanti. Nei mesi successivi venne inseguito, braccato, mai raggiunto. Come un’affilata punta di freccia di bambù, sempre più profondamente entrava  nella mia carne la concezione secondo cui il verificarsi di determinati eventi non è casuale, ma conseguenza di precise scelte fatte dall’uomo; essendo ogni azione correlata, tutto è prevedibile; scoccando la sua freccia senza aver individuato chiaramente il bersaglio, Omá sapeva che avrebbe potuto colpire uno dei suoi ospiti.

        Postogli un cestino sul capo, al morto venne fatta assumere la posizione fetale. Venne  avvolto nell’amaca, poi in una stuoia di paletti imbottita con foglie. Il feretro venne sospeso fra due alberi nella foresta, non lontano dalla casa comunitaria. In segno di lutto i parenti si tagliarono i capelli e tolsero gli ornamenti; le donne si dipinsero il volto di nero. Vennero bruciati o messi fuori uso i beni materiali a lui appartenuti, distrutta la sua piantagione, incendiate le tettoie di caccia dove aveva pernottato, cancellate le impronte dagli oggetti toccati e le orme dai sentieri percorsi. Per venti giorni, all’imbrunire,  riecheggiarono pianti rituali per ricordare la personalità del morto, per lamentare che il corpo  fosse esposto alle intemperie e auspicare che si decomponesse rapidamente. 

       Al ventunesimo giorno dalla morte, gli indios ritennero che il grado di putrefazione del cadavere poteva essere sufficiente per procedere alla raccolta delle ossa. Servendosi di un pezzo di bambù, due uomini tagliarono  quanto era rimasto di pelle e carne. Queste parti vennero interrate insieme ad amaca, cestino-copricapo e foglie che erano state in contatto con il corpo, e insieme ai recipienti che avevano raccolto i liquidi sgocciolati dal feretro. Le ossa vennero sistemate dentro a un cesto, e questo sigillato con foglie. Servendosi di una gerla, la suocera del morto trasportò il cesto all’interno della maloca, sostando un poco davanti alle aree riservate alle famiglie imparentate con il defunto. Un alto treppiedi di paletti, che serve per conservare alimenti, sovrasta il fuoco di ogni nucleo famigliare. Il cesto con le ossa del morto venne posto sul treppiedi dei genitori adottivi, avvolto con pezzi di stoffa e coperto con grosse foglie. Sotto di esso, subito venne acceso il fuoco.

       Due giorni dopo, un po’ prima dell’alba, pianti rituali annunziarono che la cremazione stava per avere inizio. Nel luogo più centrale della grande casa comunitaria, alcuni uomini  prepararono una pira, predisponendovi un’apertura nella quale sarebbe stato appoggiato il cesto con le ossa. Con bambini in braccio e piangendo, le donne eseguirono strascicati passi di danza. Sempre servendosi della gerla, fu di nuovo la suocera a trasportare il cesto con le ossa del defunto fino alla pira, cui subito venne dato fuoco. Dopo circa mezz’ora, qualcuno disse che le ossa erano pronte; la notizia risuonò come una parola d’ordine che fece andare donne e  bambini al fiume per fare il bagno e prendere acqua. Usando due bastoncini, un uomo raccoglieva pezzetti di ossa carbonizzate, mentre un altro le frantumava dentro a un mortaio. Con un setaccio, le ceneri venivano separate dai residui  di osso e  introdotte in una zucchetta, che sarebbe stata conservata dai parenti più stretti. Infine vennero interrate le braci e i residui non polverizzati delle ossa.

       Uomini e bambini si avvicinarono. Mischiandole a saliva e rosso urucu, lo sciamano João spalmò  ceneri del morto sul corpo degli uomini, perché acquisissero coraggio e audacia; lo sciamano Atré  fece la stessa cosa con i bambini; il capostipite Porako eseguì il cerimoniale sui nipotini. Vennero bruciati tutti gli strumenti usati per la cremazione,  interrati gli ultimi residui di ossa non polverizzate e le ceneri che non entravano più nella zucchetta ormai colma. Sulla terra rimossa, il papà del morto sistemò dei rami e la mamma  buttò dell’acqua. Ormai cremate e polverizzate le ossa, liberatosi dal corpo, lo spirito del morto potette finalmente raggiungere gli antenati nella “terra di sopra”.  

       Nei mesi successivi, molte feste vennero organizzate affinché le ceneri della zucchetta, mescolate a pappa di banane, potessero essere gradualmente ingerite durante i suggestivi e struggenti cerimoniali funebri che fanno parte delle feste stesse. Spinta dal ricordo di te, buon Xiko, e dal ricordo degli anni vissuti in mezzo a voi, Yanomami, ho estratto da una cartellina un putrefatto testo  etnografico, ne ho separato l’ossatura dall’involucro esteriore, ho bruciato l’ingiallito foglio di carta, alle ceneri ho aggiunto  umida nostalgia e rossa  emozione e me le sono spalmate sul corpo per acquisire coraggio e audacia. Ho bisogno di coraggio per continuare a vivere. Ho bisogno di audacia per trasformare il truce quotidiano in pacifico vissuto.

Glossario

Maloca: grande casa comunitaria o villaggio indigeno.

Urucu: materia colorante estratta dall’omonimo frutto.

Wakathautheri: gruppo locale yanomami.

Yakoana: tossico estratto dalla corteccia dell’albero yakoanahi (Virola theiodora).

Questa voce è stata pubblicata in Narrativa. Contrassegna il permalink.