Peles-vermelhas

PELES-VERMELHAS, poema de Loretta Emiri, publicado na página Momento Litero Cultural (editores Selmo Vasconcellos e Bahia), Jornal Alto Madeira, Porto Velho (RO), 26 de março de 1994. 

Menstruação, a mulher é vermelha.
Sangue, a luta é vermelha.
Pele, dos Yanomami é vermelha.

Nas veias da mulher, utopia.
Nas entranhas da luta, esperança.
Na carne amada, sentido colorido da vida.

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Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami

Dossiê elaborado por Loretta Emiri em janeiro 2024.

Registro das atividades desenvolvidas durante o ano de 2023 para fomentar a necessária, inadiável criação, dentro do seu território, de um Centro de Formação para o Povo Yanomami.

Ver pdf no link: https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?fbclid=IwAR2Thsz1oDeeh54aYKqYvw-rFhK4FEX6o5Efog2T7Fanr-Hwur7jgEt7lrg

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Romanzo indigenista

Recensione del poeta e critico letterario Lorenzo Spurio,

pubblicata in OCEANO NEWS, n. 12., dic. 2023.

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Libro da leggere tutto d’un fiato. E da diffondere!

Romanzo indigenista è un racconto a più voci: quella di Loretta Emiri e quella di Rixi, il suo doppio, cioè l’essere simbolico che nella cultura yanomami vive una vita parallela a quella di ciascun essere umano.

La narrazione, dai toni sempre vivaci e non poco provocatori, si snoda attraverso le stagioni e le stazioni della vita della protagonista principale: Cosetta, che crescendo diventa Scarpetta, quindi Fiammetta e infine Ambretta.

I temi trattati, tanti e sempre molto interessanti, hanno un denominatore comune che li lega come un robusto filo conduttore: i diritti. Siano essi quelli di una bambina o adolescente o giovane donna o anziana che si fa spazio nella vita e nel mondo; oppure quelli dei popoli nativi, soprattutto dei suoi amici Yanomami il cui spazio nella vita e nel mondo viene sempre più circoscritto, limitato, precluso da chi, in nome di una pretesa cultura superiore (la nostra), e di un preteso progresso (parola inventata ad arte dall’occidente conquistatore), li priva delle terre, delle tante ricchezze, della cultura ancestrale, dei diritti. Anche del diritto alla vita.

Ed è per difendere quei diritti e quelle vite che Loretta Emiri lotta e scrive.

Lotta perché il suo è un impegno fatto di azioni concrete. Scrive perché anche da questa parte dell’Oceano, a più di tredicimila chilometri di distanza, le voci del popolo Yanomami e di tutti i popoli nativi condannati a sparire si facciano persone; perché i loro diritti siano finalmente sanciti; perché le loro storie entrino a pieno titolo nella Storia.

Libro da leggere tutto d’un fiato. E da diffondere!

Recensito in Italia il 4 dicembre 2023 da Cliente Kindle, Amazon.

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Loretta Emiri e il suo “Romanzo indigenista”, memorabili parole d’amore per la scrittura e la vita

Recensione di Alessandra Cicalini, 16-11-23.

Le ricorrenze fanno sempre un certo effetto, soprattutto quelle con cifra tonda.

Esattamente dieci anni (e un mese) fa, sul blog di un’azienda per il quale lavoravo, veniva pubblicata una mia intervista alla scrittrice Loretta Emiri. Ai tempi aveva da poco mandato in stampa “Quando le amazzoni diventano nonne”, dedicato alle sue amatissime progenitrici, materna e paterna. 

Anche senza conoscerla, si può intuire che in quel titolo, contenente l’esplicito riferimento alle eroine simbolo dell’immensa foresta sudamericana, l’autrice lasciasse una fondamentale traccia del suo percorso insieme letterario ed esistenziale.

Perché ne parlo adesso? Perché le ricorrenze, come scrivo sopra, vanno celebrate, tanto più se, esattamente a distanza di dieci anni, la protagonista della medesima intervista è reduce dalla pubblicazione di “Romanzo indigenista”, il libro – disponibile in cartaceo su Amazon – che l’autrice aveva cominciato a buttare giù proprio allora.

Fa un certo effetto, ripeto, pensare che nel frattempo siano trascorsi dieci e più anni dall’intensa chiacchierata che ha dato origine a quell’intervista, ma al contempo è come se non fosse passato nemmeno un giorno. Perché Loretta ha tenuto fede al suo proposito di scrivere “un romanzo d’amore”, con una determinazione che le fa davvero onore.

Non pensiate al classico racconto di due che si conoscono, prima si odiano e poi si amano. Nella scrittura ironica e tagliente dell’autrice di origine umbra, oggi cittadina del mondo con domicilio a Boa Vista, capitale dello Stato del Roraima situata nel nord del Brasile, non c’è mai stato spazio per sentimentalismi e autocensure.

L’amore di cui tutto il libro è pervaso è di tutt’altra natura o, per meglio dire, è autentico, come lei.

Diviso in quattro parti, il testo ripercorre in 35 capitoli le fasi della vita della scrittrice, dall’infanzia al presente, che faccio fatica a chiamare vecchiaia, come invece Loretta stessa dice. Non che ci sia niente di male a definire ciascuno stadio dell’esistenza che ci è dato in sorte di attraversare con il proprio nome. E’ solo che le sue parole pulsano di gioventù.

A renderle così frizzanti, è lo stile scelto dall’autrice con estrema accuratezza. 

Il racconto è affidato a quattro diverse versioni della scrittrice stessa, che è stata prima Cosetta, poi Scarpetta, Fiammetta e oggi Ambretta. A dare voce all’una o all’altra, è “Rixi”, termine usato dalla popolazione amazzonica degli Yanomami – con i quali Loretta ha coabitato a lungo direttamente in foresta – che designa “l’essere simbolico che vive una vita parallela a quella dell’uomo”, scrive l’autrice nel glossario riportato nell’ultima pagina del libro. 

Il narratore principale (anzi: la narratrice principale) è insomma una alter-ego di origine ancestrale, misteriosa, e per questo motivo a tratti anche perturbante, quanto l’origine stessa dell’uomo e di ogni altra forma vivente. 

In tutta la produzione dell’autrice è voluta la mescolanza tra le sue vicende personali e le storie di emancipazione dei nativi dell’Amazzonia dai retaggi dell’aggressivo colonialismo bianco.

In quest’ultimo lavoro, però, a mio modestissimo avviso, il tutto si tiene particolarmente bene, come se, davvero, affidandosi alla sua Rixi, la pungente scrittrice italiana si fosse sentita protetta, accolta, liberata. Amata, per l’appunto.

Ogni capitolo, poi, ha il pregio di poter essere letto anche da solo e, anche quando l’autrice cita aneddoti comparsi in altri lavori, pare proprio che ciascuno di essi abbia acquisito una tinta nuova. Insomma, sembra quasi che, allontanandosi nel tempo e nello spazio, certi ricordi, soprattutto quelli più dolorosi,  siano diventati più colorati e pertanto degni di essere raccontati così come sono, senza rimorsi e rancore. 

Tra gli altri aspetti di “Romanzo indigenista” ho trovato inoltre molto stimolanti i riferimenti ai gusti letterari sviluppati dalla scrittrice da bambina e adolescente. 

Non avevo ad esempio idea di chi fosse Steve Reeves, l’attore culturista che l’ha fatta palpitare da ragazzina (era obiettivamente un bel ragazzo, niente da aggiungere), mentre mi ha messo proprio una grande curiosità lo scrittore svizzero Hans Ruesch, del quale viene citato in particolare il libro “Paese dalle ombre lunghe”, incentrato sulla storia di una famiglia Inuit alle prese con la scoperta della cosiddetta società civilizzata. 

Evidente l’omaggio al suo amatissimo Luigi Pirandello e in particolare all’opera dello scrittore siciliano “Sei personaggi in cerca d’autore”, ma mi hanno colpito anche le considerazioni su Grazia Deledda, Cesare Pavese e Beppe Fenoglio. 

Maniacale com’è, Loretta Emiri deve essersi soffermata a lungo su struttura e suono delle opere lasciate ai posteri dai suoi modelli letterari (bello anche il tributo a Marguerite Yourcenar nel capitolo sulla gita a Tivoli con la famiglia). 

A maggior ragione, perciò, immagino ancora una volta con quanta cura abbia realizzato il suo dizionario “Yanomami – Portoghese”, un testo battuto alla macchina per scrivere, dopo mesi di minuziosa raccolta di materiale e consultazione di fonti autorevoli. Ancora oggi quel lavoro rappresenta un prezioso strumento utilizzato dai maestri nativi per proseguire nell’azione di “coscientizzazione”, ossia di presa di coscienza delle nuove generazioni di indios rispetto alla necessità di ricucire le ferite provocate dal contatto con l’Occidente, senza arretrare nemmeno di un passo nella tutela dei propri diritti di popolazioni autoctone. 

Che altro aggiungere? Solo questo: prima di leggere “Romanzo indigenista”, conviene, secondo me, predisporre l’ambiente intorno a noi come si dovrebbe fare quando si organizza una cena per amici speciali. 

Per prima cosa, quindi, sgombriamo l’ambiente da oggetti inutili, poi sistemiamo bene i cuscini sul divano, accendiamo la nostra lampada preferita e, sorseggiando un drink – possibilmente alcolico – accomodiamoci e lasciamoci andare. 

Il tempo, che è in ogni caso una convenzione, scorrerà rapido, impetuoso e profumato come il grande fiume dell’Amazzonia, gigantesca culla di natura e umanità alla quale è – giustamente – tornata una persona e una scrittrice speciale come Loretta Emiri, straordinariamente unica nella sua capacità di sognare in grande, in nome e per conto di tutti noi.

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Romanzo indigenista, un libro vivace e profondo

Recensione di Alessandra Cicalini, 14 novembre 2023.

Loretta Emiri regala ai lettori un testo vivace e profondo. 

Sorprende l’uso originale delle voci plurime cui affida il racconto della sua vita, un omaggio chiaro al suo amato Luigi Pirandello. 

Seguendola nei capitoli, la vediamo crescere, non in senso cronologico, bensì nella consapevolezza via via sempre più forte di essere venuta al mondo per lasciare tracce durature grazie alla sua scrittura. L’autrice chiama questo processo “coscientizzazione”, riferendosi innanzitutto al lavoro compiuto insieme con gli indios Yanomami della regione del Roraima, nel nord del Brasile. Con loro, e poi con altre popolazioni dell’Amazzonia, è vissuta per 18 anni, a partire dai suoi trent’anni. 

Da loro è tornata quest’anno, lasciandosi alle spalle un occidente senescentemente annoiato. 

Dice, a un certo punto della narrazione, di non sentirsi così coraggiosa, come invece la considerano i suoi amici ed estimatori. Bisognerebbe chiedere alla sua Ambretta, il personaggio cui affida la fase della maturità, che cosa sia il coraggio. Noi lettori non abbiamo dubbi: basta lasciarsi assorbire dal suono delle sue lucide, spesso affilate, parole per capirlo. 

Da leggere assolutamente sorseggiando un’aromatica caipirinha!

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Il romanzo epico di Loretta fuggita dal “paese delle cose meschine”

Recensione di Gian Carlo Zanon, 12-11-2023.

Nel linguaggio comune le parole indigeno, autoctono, aborigeno hanno assunto ormai lo stesso significato: l’indigeno, l’autoctono, l’aborigeno è colui che vive nel luogo originario dei suoi avi.  Etimologicamente il sostantivo aggettivante indigeno è formato da due parole: in = dentro/interiore e geno derivato dal tema di gìgnere‘generare’. Autoctono è composto da αὐτός/autos/stesso e da χϑών/terra. I due termini equivarrebbero, per il significato, ad aborigeno e vengono usati troppo spesso come sinonimi.

Loretta Emiri nel suo Romanzo indigenista sembra però prediligere la parola “indigeno”. Parola che, presa alla lettera, raffigura una entità “generata dentro”. Il rixi, questo «essere simbolico che vive una vita parallela a quella dell’uomo» – che l’autrice traduce con la locuzione “alter ego” – per gli Yanomami è una entità interiore che vive una vita parallela all’essere umano: nasce alla nascita della persona e muore, se ho ben capito, al momento della sua morte. È chiaro che, detto in questi termini, il rixi è quella realtà interna immateriale che universalmente è esistita e/o ancora esiste in tutte le culture: daímòn per la cultura greca, èlòhìm per quella ebraica, duende per l’andalusa, genius per quella romana, spirito per gli animisti, l’atai per i Melanesiani eccetera.* Per i monoteismi l’entità interiore ha altre caratteristiche, per esempio viene innestata nel feto dal divin demiurgo, e non muore alla morte del corpo. Ma Loretta Emiri ci dice qualcosa di più importante. Ci dice che per la cultura degli indios yanomami: «ogni individuo possiede un alter ego, vivendo vite parallele, le due entità mai s’incontreranno; la morte dell’alter ego provoca quella dell’uomo a cui è abbinato».

In altri termini per gli Yanomami se l’individuo lascia morire il suo rixi – che potremmo definire come la voce della propria realtà psichica inconscia – egli muore. Nella nostra società, in cui la scissione identitaria regna sovrana, perdendo la propria realtà interiore, l’individuo non muore. Magari vive come un morto una vita inutile ma non muore. Nella nostra società non accade che la perdita dell’identità umana causi la morte, mentre in una cultura animistica come quella degli Yanomami in cui «ogni essere vivente, compresi i vegetali, animali, cose, possiede uno spirito (…)» la morte del rixi (realtà interna/psiche) determina uno stato di crisi che può portare anche alla morte. Questo fenomeno, decodificato come “crisi della presenza”, è trattato dall’antropologo Ernesto de Martino nel suo saggio Il mondo magico.

Loretta Emiri mi scuserà per questo lungo preambolo, ma pensando a lei non posso che pensare al suo daímòn, ovvero alla sua realtà interiore uscita indenne dal «paese delle ombre meschine». Così lei definisce amaramente questa nostra società in cui la meschinità intellettuale regna sovrana relegando i “resistenti” ai margini della cultura tanto dominante quanto meschina. Lei si è salvata dalla “lebbra comune”. Lebbra comune che, senza vergogna, viene mostrata in ogni occasione dai giullari mediatici che mettono in bella vista i propri bubboni anaffettivi che rappresentano una carenza più o meno grave di umanità. 

Nei suoi racconti Loretta (mi permetto di chiamarla per nome data la nostra frequentazione intellettuale più che decennale) sceglie la via di ciò che questa cultura definisce  “politicamente incorretto” dando del “testa di c.” a chi se lo merita. Certo potrebbe usare un altro linguaggio ma tradirebbe quel rixi che, come il daímòn di Socrate, le impedisce di non dire la verità vera fino in fondo scegliendo il proprio linguaggio privato che Loretta rivendica parlando dell’originalità del linguaggio di Fenoglio e del suo romanzo Una questione privata.

Il linguaggio imparato trai banchi di scuola le serve per descrivere l’ingiustizia; il suo linguaggio privato le serve per delimitare e separare giustizia e ingiustizia che sono i due parametri a lei congeniali entro i quali fin da bambina muove il suo pensiero. Cita Orazio: «C’è misura nelle cose, ci sono determinati confini oltre i quali non può esservi il giusto». Lei non ha mai annullato la voce del suo “compagno segreto”, presente il lei sin dagli albori della sua nascita, quando odio e amore erano così certi da non potersi confondere l’un l’altro. Il suo rixi è diventato grande e si è realizzato insieme a lei… e lei non lo ha mai tradito e non ha mai tradito la giustizia anche rischiando di rompersi la testa.

Anche quando ha scelto di vivere quasi segregata in una piccola casa, in una piccola città abitata da “gente piccola”, non ha mai navigato costeggiando sempre la terra per paura di perdersi. Lei aspettava il vento giusto per solcare l’alto mare non solo con la mente ma anche con il corpo. Partita per lo sconosciuto mondo della giungla brasiliana, lì è rimasta per quasi vent’anni, quattro dei quali vivendo nei villaggi yanomami. Poi è tornata nella sua dimora natale nelle Marche per poi, con un atto inaudito, a settant’anni tornare dai suoi amati yanomami e continuare la sua lotta privata per i loro diritti sociali. Ora ogni tanto la vedo apparire su Rai3 nella trasmissione Geo in cui viene invitata per parlare delle sue lotte umanitarie in Roraima e della resistenza degli Yanomami vessati per motivi economici dai ladri comuni e dai potentati economici.

Le sue scelte così estreme sono sempre state portate avanti per dare senso a quei confini oltre i quali non c’è giustizia. La sua vita, costellata sin dall’infanzia da ingiustizie che avrebbero stroncato la vitalità di chiunque, non l’ha portata a scegliere l’inumano. Ha scelto di combattere l’inumano e le sue ombre meschine; ha scelto di stare sempre dalla parte di chi non vince – quasi – mai. Scegliere di stare dalla parte del più debole, di chi non ha neppure il linguaggio per opporsi alla meschina bramosia dei potenti, fa parte di un modo di essere… schierarsi dalla parte di chi non ha gli strumenti culturali, legali, economici, rischiando ogni volta la precarietà economica, condizione in cui ha sempre vissuto, è un atto eroico. Lo è soprattutto quando si aiuta l’altro da sé a realizzare la propria realtà umana che, nel caso specifico, non può essere quella chiamata anima e imposta da missionari in gonnella con le proprie mortifere regole morali religiose. 

Questo ci racconta l’alter ego narrante di Loretta nel Romanzo indigenista.

Dieci anni fa, per la rivista degli italiani residenti in Francia Altritaliani feci una intervista a Loretta.

In questa intervista, mi disse cose molto importanti che possono servire per definire la sua essenza umana e culturale: (…) Partendo volevo lasciarmi alle spalle una realtà fatta di accumulo di cose superflue, da cui non scaturivano gioie interiori, e di relazioni interpersonali fredde e formali. Partivo anche alla ricerca di motivazioni che si trasformassero in stimoli per continuare a vivere. (…) Quando le donne yanomami mi invitarono ad assistere al parto, entrai in panico perché le immagini che del parto avevo interiorizzato erano quelle traumatiche trasmessemi dalla società occidentale, e che rimandavano a stanze di ospedale, strumenti chirurgici, sangue e grida di dolore. In piena foresta amazzonica, accanto a donne e bambini riuniti per assistervi, ho capito che il parto è la cosa più naturale che possa accadere ad una donna.(…) Durante i primi approcci con l’universo yanomami, alcune caratteristiche culturali mi hanno molto colpita. I villaggi yanomami sono composti da una sola abitazione, la maloca, e ciò significa che si può vivere numerosi sotto lo stesso tetto. Quello che un individuo possiede equivale a quanto gli altri possiedono, e ciò significa che non esistono classi sociali, né caste. (…) Non esiste un capo che comanda sugli altri, ma ci sono individui saggi ed esperti che vengono consultati prima che decisioni comunitarie siano prese. Una delle cose che più mi ha impressionata è stato costatare che nel cesto da carico che la donna trasporta durante gli spostamenti in foresta entrano tutti i beni materiali che la famiglia possiede, sottolineo, che la famiglia possiede: questa piccola informazione dovrebbe dire grandi cose agli occidentali, che hanno trasformato il loro mondo in una grande discarica. (…) La lingua si presenta come un microcosmo della cultura; tutto ciò che quest’ultima possiede si esprime attraverso la lingua, ma la lingua è, essa stessa, un fatto culturale. Poiché integra in sé ogni aspetto della cultura, la lingua è anche la rappresentazione in miniatura di tutta la cultura. Partendo da questi concetti, è evidente che preservando le lingue si contribuisce alla preservazione delle culture indigene. La valorizzazione di lingue e culture ha contribuito ad affermare o fortificare l’identità delle società indigene, ma anche a far capire agli uomini bianchi che quelle degli indios non sono società inferiori, o dialetti, né lingue cosiddette povere. Possiamo parlare solo di DIVERSITÀ, siano esse linguistiche, culturali, politiche, sociali, o religiose. Nel rispetto della sua diversità, qualsiasi società minoritaria ha diritto di esprimersi e, soprattutto, di vivere e tramandarsi.»

E alla mia domanda: Abbiamo cominciato con una tua poesia nella quale esprimi tutta la disperazione e l’impotenza per la realtà dei popoli indigeni ai quali viene rubato tutto, anche la vita. La poesia però alla fine offre un’immagine di speranza: ti metti all’ascolto dei “Giorni fecondi” che verranno “generando i futuri”. Questo, forse, rappresenta il mito faustiano di rigenerazione perpetua, e anche la certezza di una primaria e naturale bontà presente alla nascita negli esseri umani. Idea di bontà ed eguaglianza originarie che l’occidente ha perduto da tempo e che, chi ne avverte l’esistenza, va a cercarla dove pensa che ancora ci sia, e cerca di farla durare nel tempo, perché solo uno sguardo che risponde ad uno sguardo dà certezza e senso alla propria esistenza. Tu, Loretta, hai trovato quello sguardo?

Loretta rispose così: «Ho incrociato lo sguardo con gli indios. Fino a qualche anno fa ero fisicamente a loro fianco; oggigiorno lo sono attraverso la scrittura. La rielaborazione, esplicita e voluta, della privilegiata esperienza fatta ha lo scopo di imprimere continuità all’esperienza stessa. Sì, credo proprio di poter dire che quello sguardo l’ho trovato ed è quello degli indios brasiliani.»

Ora Loretta Emiri è lontana ma l’eco del suo grande respiro giunge a noi attraverso questo suo Romanzo indigenista

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Romanzo indigenista

Loretta Emiri

Amazon, 26 ottobre 2023.

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Neve

Una poesia per Adarella, mia madre.

Neve ha bruciato gerani,

edera e piante grasse

restano disattese promesse,

sempreverdi

Primavera è venuta a portarci.

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Guaraní

Loretta Emiri*, traducción do italiano por Fernanda Elisa Bravo Herrera.               

            Al antiquísimo tronco tupí se le atribuye un origen de al menos cinco mil años. De éste proviene, hace 2.500 años atrás aproximadamente, la familia lingüística tupí-guaraní. La historia de los tupí tuvo como escenario la selva tropical; la de los guaraníes, las selvas subtropicales de la cuenca de los ríos Paraguay, Paraná y Uruguay. Durante la conquista europea, numerosas poblaciones autóctonas ocupaban la extensa región que se extiende desde el Amazonas hasta el Rio de la Plata, y desde el océano Atlántico hasta la cordillera de los Andes. Al menos catorces grandes grupos  denominados guaraníes se sometieron a la colonización española y portuguesa, y al proceso denominado “civilizador” llevado a cabo por misioneros franciscanos y jesuitas.

            Los primeros contactos entre europeos y guaraníes se caracterizaron por alianzas a nivel social, económico y político. En el ámbito social la alianza se produjo a través del mestizaje: pensando que los extranjeros fueran gente buena, los indios les dieron sus propias hijas, de tal modo que toda la familia indígena se ponía al servicio del hombre blanco honrándolo como pariente; naturalmente, en los casos en que el primer contacto se produjo con la guerra, los europeos se adueñaron por la fuerza de las mujeres de los grupos derrotados y sometidos. Bajo el aspecto económico, los indios proveyeron las bases de descanso y de abastecimiento de los conquistadores. En el ámbito político, la cultura indígena fue instrumentalizada por los europeos, que usaron los conocimientos topográficos de los guaraníes, su habilidad como guerreros y las enemistades con otras poblaciones para atacar los nativos todavía no sometidos.

            En pocas décadas, el cruel gobierno instalado desmenuzó las instituciones indígenas y provocó una trágica disminución de la población. La explotación deshumana indujo a los indios a rebelarse. Los enfrentamientos determinaron que los europeos se contactaran con otros grupos guaraníes que, a su vez, se convertían en víctimas de la ferocidad de los colonizadores; sometidos a violencias de todo tipo, cuando también ellos se rebelaban, eran sustituidos por indígenas recién capturados. La palabra española encomienda y la portuguesa bandeira definen situaciones idénticas: las incursiones y las expediciones realizadas para capturar indígenas todavía libres, para esclavizarlos y someterlos a la economía colonial. El entonces gobernador del Paraguay notó que la drástica disminución de la población indígena ponía en peligro la colonización, comprendió que, si la espada estaba fallando, la cruz habría podido salvar la situación; propuso el envío de misioneros que evangelizaran, y por tanto domaran, los “salvajes”. La intención era que las órdenes religiosas entraran en contacto con los grupos indígenas esparcidos en la selva, los reunieran en un lugar y los predispusieran a la aceptación del Evangelio y de los trabajos forzados.

            Perseguidos por un lado por los españoles e por otro por los portugueses, muchos guaraníes pensaron que encontraban refugio en las misiones. Para llenar el vacío dejado por los indígenas fugitivos o asesinados por las miserias y cansancio, durante décadas, los habitantes de los aglomerados portugueses asolaron también las poblaciones de las misiones. Entre los religiosos que trabajaron entre los guaraníes, los jesuitas se destacaron al criticar la situación en la que los indios se encontraban: denunciaron la explotación a la que eran sometidos; defendieron su derecho a liberarse; se comprometieron a hacer respetar las leyes que reglamentaban el trabajo indígena; obtuvieron que los individuos bajo su protección fueran considerados súbditos directos del rey, evitando así la mediación de las autoridades coloniales. Pero las misiones estaban siempre al servicio de la corona española, a la que apoyaban en el proyecto de hacer que los indígenas se adecuaran a aquello que se entendía como vida civil y política. Al modificar su cultura, los misioneros estaban convencidos que humanizaban a los indígenas; conquistándolos espiritualmente obtenían que se sometieran dóciles a la colonización. 

             En un primer momento, los indígenas se resistieron al nuevo modo de ser inculcado en las misiones. Su jefes espirituales se transformaron en portavoces del malestar y de la crisis social. Pero los jesuitas fueron tan eficientes en la guía temporal y espiritual que rápidamente los lideres religiosos nativos fueron cooptados, después debilitados, luego silenciados, finalmente  sustituidos. En las misiones no estaba permitido el ingreso de españoles, mestizos, negros y mulato: sin recurrir al mestizaje, los misioneros lograron igualmente hacer que sobre los guaraníes pesase una importante explotación económica, una acentuada dominación política y la absoluta imposibilidad de continuar a ser ellos mismos.

            Los guaraníes que quedaron afuera de las misiones y del campo de influencia de los tiranos europeos se escondieron en las selvas adyacentes del río Paraná. El relativo aislamiento los ayudó a preservarse. El alboroto causado per la Guerra de la Triple Alianza, dispuesta por Brasil, Argentina y Uruguay contra Paraguay (1865-1870), los indujo a volver a ocupar los territorios antiguamente habitados por otros grupos guaraníes. Desde el Paraguay peregrinaron hasta la Argentina e el Brasil. Después de algunos años del fin de “Guerra grande”, el gobierno paraguayo dio en concesión numerosas hectáreas de selva virgen, mientras personas y empresas adquirieron en la región enormes propiedades para la explotación, por ejemplo, del mate. Inició así la venta con pérdidas del hábitat que por miles de años había permitido que la cultura guaraní se expresara a nivel religioso, social y económico.

            En la segunda mitad de este siglo, en la región fronteriza entre Paraguay y Brasil, la colonización se intensificó con ritmos y métodos violentos. La mono-cultura tomó el lugar de las selvas. Los indios fueron expulsados, o reducidos a jornaleros mal pagados y sometidos a la disgregación social, a la marginalización, a la soledad, al hambre, a las enfermedades, al alcoholismo. También en el sector paraguayo, los propietarios de las haciendas son predominantemente brasileños, y son llamado los “brasileños de Stroessner” porque compraron enormes extensiones de tierra a precios bajísimos en la época de ese dictador. Por una ironía de la suerte, los guaraníes que recorren actualmente el litoral y la región sur del Brasil son considerados “indios paraguayos”. De los catorce grupos guaraníes contactados en los siglos XVI y XVII, diez desaparecieron. En Bolivia sobreviven los chiriguanos. En Paraguay, Argentina y Brasil encontramos sobrevivientes de los grupos nhandeva, kaiowá y mbyá. Los ciudadanos de los estados nacionales construidos sobre las ruinas del mundo guaraní se jactan del progreso implantado en la región y tratan de ignorar los indígenas que se obstinan en sobrevivir, o los persiguen tratándolos como intrusos y invasores. Es así que los guaraníes viven hoy en microscópicas reservas, precariamente acampados en las orillas de los caminos, míseramente instalados bajo los puentes en la periferia de las ciudades.

            La “Tierra Sin Males” es el Edén que los guaraníes han tratado de alcanzar a través de migraciones tradicionales y constantes. La mística búsqueda de espacios concretos en donde poder seguir viviendo según los propios esquemas culturales motivaba tales migraciones: ¿cómo prescindir de la tierra si no hay cultura sin ella? Peregrinar en búsqueda de la “Tierra Sin Males”, para los guaraníes significaba mejorar el propio mundo, ellos mismos, la vida. Las selvas se transformaron en campos. Los edificios han sustituido los árboles. La construcción de centrales hidroeléctricas provocó la inundación de los pueblos e de las áreas limítrofes. La tierra es cada vez más escasa; es siempre más difícil para los guaraníes mantener su propio sistema socioeconómico o religioso. ¿Dónde ir se a oriente y a occidente es la misma devastación, el mismo asedio? Tomada conciencia del hecho de que la “Tierra Sin Males” no existe más, la marcha de los guaraníes se transformó en una vía crucis.

            Las Cascadas del Iguazú – ubicadas a 22 km. en la confluencia del homónimo río con el gran Paraná, en la frontera de Brasil al norte, de la Argentina al sur y del Paraguay al oeste –  son lo que queda del universo guaraní: un limitado, pero prodigioso espectáculo natral que se ofrece a la vista de los turistas internacionales. Del mundo indígena, el lugar conserva el nombre, que significa “agua grande”. Transitando a lo largo de los caminos que unen las cascadas con las ruinas de las misiones, los forasteros pueden inclusive reparar en las casuchas de los guaraníes sobrevivientes.

            En Europa se festejaron los cinco siglos del llamado “Descubrimiento de América”. Usando una terminología más adecuada, en Brasil se habló de invasión y genocidio, de quinientos años de opresión y de lucha, de resistencia indígena. Toda una serie de iniciativas fueron propulsadas para recordar los millones de nativos muertos y las numerosas sociedades indígenas exterminadas, y para denunciar la situación de los sobrevivientes de la masacre física, cultural y religiosa. Ese año estuve dos veces en São Paulo. Cada vez que iba al centro, entre la marea de peatones y el ruido del tráfico descubría pequeñas islas humanas: silenciosas e dignas familias guaraní-mbyá ofrecían artesanías a los pasantes. Manteniéndome a una discreta distancia, me detenía algunos minutos siguiendo al escena y el curso de los pensamientos que me provocaba.

            Morro da Saudade, traducible como Montículo de la Nostalgia, es el nombre portugués con el cual es conocido un pueblo mbyá distante sesenta kilómetros del corazón de São Paulo. Limita con un terreno perteneciente a la red radiofónica que los propietarios blancos han llamado impúdicamente “Radio Tupi”. Frecuentemente los indios llegan al centro de la ciudad para vender sus artesanías. En los mismos lugares donde crecieron árboles y antepasados, vagan silenciosos cargando niños, artesanías y males. A veces duermen, en grupos, en las veredas. Al ser inadecuados los campos que tienen, para las necesidades alimenticias dependen de los productos comprados en los mercados; es así que las artesanías se transformaron en fuente de ingreso. En las zonas que quedan de la selva recogen las últimas materias primas disponibles. En los campos cultivan bambú, calabazas. Sustituyen las plumas de pájaros ahora inhallables con las de gallina, adecuadamente teñidas. Emplean  nylon en lugar de los hilos de algodón y de fibras vegetales. Para dar tonalidades vibrantes a los adornos que venden, compran papel carbónico, jugos de fruta colorados artificialmente e, incluso, una sustancia que los fabricantes blancos han llamado impúdicamente “Tinta Guaraní”. En fin, reducen las dimensiones de algunas artesanías para conformar a los compradores que prefieren objetos no abultados. El patético producto final no es que otro que la materialización de la transfiguración de la existencia guaraní.

* Loretta Emiri, escritora y estudiosa de las civilizaciones indígenas, ha vivido durante un largo período en el Amazonas brasileño. Es miembro del CISAI – Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena de la Università degli Studi di Siena.

             

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